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di Cristina Ali Farah
Attrice di teatro, cinema e televisione, regista, autrice, Daniela Giordano è l’ideatrice e direttrice artistica di Festa d’Africa, Festival Internazionale delle Culture dell’Africa Contemporanea. Orpheus, spettacolo da lei scritto, diretto e interpretato, con danza e coreografie di Lamine Dabo e musiche composte ed eseguite dal vivo da Ismaila Mbaye e Gijbril Gningue, è in scena a Roma in questi giorni.
Qual è il tuo rapporto con il mito di Orfeo?
“Il mito di Orfeo ha attraversato tutta la mia vita, mi ha sempre affascinata da quando ero bambina. L’amore che ha il potere di sconfiggere la morte, la musica e quindi l’arte che avvicinano l’essere umano agli dei, mi facevano fantasticare di assoluto. Poi vidi in televisione l’Orfeo negro di Marcel Camus. Fui stregata dalla magia e dall’ambientazione della storia nel carnevale di Rio de Janeiro, l’amore, il dolore, la ricerca, la morte, il caos, dove figure infernali, (simbolicamente maschere di un carnevale) si mescolavano a esseri umani”.
Il tuo processo creativo, la riscrittura del mito, come è avvenuta?
“Scrissi Orpheus nel 2004, in una settimana credo o in una notte. Fu un gesto liberatorio. Dovevo riflettere sull’amore, la morte e sulla natura del divino. Vicende personali mi stavano lacerando, la morte di mio padre e la separazione dal mio compagno, avevo bisogno di mettere ordine nei miei sentimenti. Orpheus mi è venuto incontro per la via. Cosa non aveva capito l’eroe del mito? Lui che, col suo canto e il suo dolore, aveva ricevuto un dono unico dagli dei, quello di scendere vivo nell’Ade per riprendersi la vita della amata, la sua metà”.
Cosa è che rende nero questo Orfeo?
“L’Africa in tutti questi anni, di teatro, di scambi, di amici, di viaggi, di studi, mi ha insegnato molte cose. La pazienza, il sorriso, l’ascolto, il rapporto privilegiato con il dolore. Sono stati i luoghi della terra nei quali ho percepito la natura del divino. Per questo Orpheus è nato africano. Non avevo altro luogo dove poter immaginare un essere umano in marcia per trovare l’amore perduto, che poi coincide con il ritrovamento del sé, mentre la natura gli parla e si trasforma”.
Nello spazio del palco sei in continua relazione con i musicisti e il danzatore. Mi dici qualcosa su questo? Come siete riusciti a combinare i movimenti della danza con le parole e la musica?
“La ricerca espressiva nelle mie creazioni in teatro, si è sempre orientata alla contaminazione tra le arti e i generi. Il ritmo è tutto. Parto sempre da lì, per questo spesso i miei testi hanno una metrica. Con tutti gli artisti coinvolti nel progetto, ci conosciamo da tanti anni e abbiamo lavorato insieme molte volte, grazie a Festa d’Africa Festival. Chiesi a Lamine Dabo se se la sentiva di tornare a danzare per me: è uno dei migliori danzatori che abbia mai visto, eppure ha rischiato di perdere le gambe in un incidente, i medici gli avevano diagnosticato l’impossibilità a tornare a camminare, figuriamoci a ballare. Conosceva il viaggio all’inferno, lui c’era stato e poteva raccontare il corpo di Orpheus. Ismaila Mbaye e Djibril Gningue sono due sciamani, si divertono a suonare ma non perdono mai il contatto con ciò che li circonda, sono in perenne comunione con il cosmo e tutti i suoi abitanti. Formata compagnia ci siamo messi all’opera, ma potrei dire meglio, ci siamo messi in totale ascolto uno dell’altro. Così è nato questo Orpheus, dai molti linguaggi visivi e sonori, creando nuovi equilibri e nuove armonie policrome. Ogni volta che ci ritroviamo su un palco a raccontare Orpheus si ricrea questa magia”.
Cristina Ali Farah
Pubblicato: 31 ottobre 2011
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