La Cultura della Diversità di Maurizio Bonanni/L’Opinione

Al Teatro Palladium, nel cuore della Garbatella, quartiere popolare modello del periodo del Ventennio, sul tema: “Diversità culturale, un bene per tutti”, si è svolta dal 15 al 18 settembre, la nona edizione della “Festa d’Africa-Festival internazionale delle culture dell’Africa contemporanea”. La manifestazione è stata promossa e organizzata dal “Centro Ricerche Teatrali scena Madre”, diretto da Daniela Giordano, attrice e regista. Alla realizzazione hanno assicurato il loro concreto sostegno l’Assessorato alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma e l’Università  “La Sapienza” – Dipartimento di Lingue per le Politiche Pubbliche. Ha aderito, altresì, la Presidenza della Repubblica con il suo Premio di Rappresentanza. Per il patrocinio, si citano: il Senato della Repubblica; la Camera dei Deputati; i Ministeri degli Affari Esteri, dei Beni Culturali, e delle Pari Opportunità; la Commissione italiana per l’Unesco; le Ambasciate di Tunisia e Senegal. Come si vede, quindi, la cultura della diversità rappresenta qualcosa di più di una semplice dichiarazione di intenti. Quasi una piccola.. Onu! Già, perché le idee, come si sa, camminano -solo ed esclusivamente- sulle gambe e “attraverso” le anime degli uomini (in questo caso, di una donna “illuminata”, come Daniela Giordano!).

In particolare, sull’onda dell’equazione “diversità x diversità”, il 17 settembre la compagnia “Divano Orientale Occidentale” ha presentato lo spettacolo teatrale “Ammaliata”, definita come (lett.) una “orchestra popolare per coro di sei voci e tre seggiole”, scritto e diretto da Giuseppe L. Bonifati. Il modulo (per la verità, ben lontano dall’espressività e dalle escissioni chirurgiche -una vera lobotomia del conformismo benpensante e dell’ipocrisia sociale siciliana, a beneficio della cruda verità- operate dalla drammaturgia teatrale di Emma Dante) si è orientato sull’ambiguità di genere, con tre lugubri prefiche impersonate da attori maschi, con voci bianche mature ed isteriche. I (le) tre vestiti di nero, con i visi tinti di biacca, trattati come pareti murarie di Paesi meridionali bruciati dal sole, sono stati affiancati da due giovani donne ed un prestante attore di colore, con il ruolo di rubacuori. Le esistenze delle due ragazze vengono tiranneggiate e dirette dalla prefica in capo, orfana della figlia morta giovane, con una sequenza -decisamente ridondante- di impacciati minuetti, grida a sorpresa, operati con tonalità rigorosamente sopra le righe. Allo spettacolo è venuto a mancare un vero filo conduttore, nella vana attesa di un messaggio chiaro ed incisivo sulla diversità culturale, che non fosse quella dialettale fin troppo “caricata”. Insomma, un po’ fuori tema.

Viceversa, sabato 18 settembre “Keur Senegal” di Lamine Dabo,  ha visto andare in scena quindici fantastici artisti senegalesi, tra danzatori, musicisti, ballerini acrobati e cantanti del gruppo Farafinaritmi, con il grande il ritorno sulla scena romana del percussionista Sena MBaye. “Keur” in wolof, la lingua nazionale in Senegal, vuol dire “casa”, mentre il canto “Keur Senegal” rappresenta l’occasione, per uomini e donne, maestri della loro arte, di riunirsi la sera, al chiaro di luna, per festeggiare e chiacchierare tra di loro, al suono degli strumenti musicali tradizionali. La forza e l’energia di suonatori e ballerini, unita a canti e recitativi di grande intensità, ha portato i misteri e il fascino dell’Africa al centro del palcoscenico, il cui spazio si è rivelato del tutto insufficiente a contenere i ritmi, le acrobazie, i fuori programma, i salti di scala, le dilatazioni delle percussioni fino allo sfinimento fisico di quei magnifici interpreti di se stessi. Gli artisti senegalesi hanno messo al centro della rappresentazione l’anima del loro popolo, con ballerine a dimensione “reale”, né “palestrate”, né patinate, come quelle dei “variety show” televisivi nostrani, sempre troppo “bambole” per essere vere.

Ed i percussionisti hanno dato dimostrazione pratica dei movimenti rapidi, catturati dai quadri futuristi di Balla e Boccioni: le mani agivano tanto velocemente sul cuoio dei tamburi da trascinarne la stessa materia fisica in una scia sequenziale di livelli cromatici e di tonalità, fino a confondere i sensi, per cadere nell’estasi di una danza giocata -in ogni direzione, secondo linee ora curve, ora rettilinee-  con incredibile potenza di braccia e gambe, in un crescendo senza fine di gestualità, espressività e fisicità. L’Africa pacifica ha mostrato le sue.. “gambe”, così robuste da portare lontano da qualunque forma inutile di violenza e di guerra, categorie che, in fondo, appartengono solo alla cultura occidentale e alla sua “famelicità” (umana ed economica), incarnata dallo schiavismo e dalla deportazione di intere popolazioni africane nel continente americano. Quando riusciremo a rimarginare quelle ferite?  La Giordano ci dà una speranza, non appartenendo né a lei né a noi la.. “certezza” di farcela! 

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